Quando ero stato ospite la prima volta de “I Suoni delle Dolomiti” in duo con Antonello Salis e poi con il tunisino Dhafer Youssef, avevo percepito l’immensità della montagna, ma questa volta, l’esperienza delle albe (condivise con Marco Paolini e Stefano Benni) mi ha toccato in modo così profondo da farmi sentire parte del ‘nulla’. Sì, del nulla! Perché la mattina ti alzi alle cinque e quando apri la porta del rifugio ti trovi davanti centinaia di persone che, rigorosamente e stoicamente a piedi, hanno raggiunto quel luogo non solo per sentirti suonare, ma per essere parte di quel luogo assieme a te.
Alla fine dunque non siamo noi che contiamo. Una volta tanto non siamo i protagonisti e le prime donne della scena e, soprattutto, non ci sono riflettori puntati. Noi siamo solo uno strumento in balia di quella voluttà che è la montagna e che, sulle torri del Vajolét, ti concede o ti nega quel rimando di echi che tu aspetti ma che non puoi decidere o programmare con un delay o un riverbero digitale.
È quell’aria sferzante della mattina che ti sveglia e ti rintempra ma che allo stesso tempo, come ha detto Marco Paolini, è talmente pura che mentre porti alle labbra il bocchino della tromba o del flicorno hai l’impressione di baciare una grondaia…
Paolo Fresu